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Il dialetto: L'italiano e i dialetti

Per iniziare, due brani antologici.
Parola a Raffaele Simone, Libro di italiano, Nuova Italia 1976, p. 106ss.

La lingua è un dialetto
[...] In genere, quando parliamo di ‘dialetto’ pensiamo a qualcosa di meno ‘bello’, meno ‘corretto’, meno ‘educato’ dell’italiano; e anzi, molto spesso, facciamo una distinzione profonda tra ‘lingua’ e ‘dialetto’, sostenendo che i dialetti non sono ‘lingue’, ma sono, appunto, solo dei dialetti. Cioè delle ‘sotto-lingue’, delle lingue inferiori, prive di dignità, che bisogna nascondere nelle occasioni più importanti.
Magari avete anche incontrato, negli anni di scuola, qualche insegnante che vi dava brutti voti se trovava nei vostri temi qualche espressione dialettale, qualche parola non perfettamente italiana, eccetera. Per questo, generalmente, si finisce per credere che il dialetto è un peso che bisogna scaricare, un marchio che bisogna cercare di cancellare, perché l’unica lingua che valga la pena di imparare e di parlare è l’italiano. Ora, tutta questa serie di convinzioni è sbagliata. Vediamo perché.
[...] Quello che noi chiamiamo ‘italiano’ era in origine semplicemente un dialetto, cioè il dialetto di Firenze. Ma allora, com’è che qualcosa che prima era ‘dialetto’ adesso è diventato ‘lingua’? Perché il ‘dialetto’ di Firenze diffondendosi, ha cominciato ad essere chiamato la ‘lingua’ di tutta Italia? Questo problema pare difficile, ma è invece piuttosto semplice. È solo di una questione di parole.
Per ‘dialetto’ intendiamo una lingua, una lingua a tutti gli effetti; con la sola differenza che, in una data nazione, il dialetto è usato solo da un numero limitato di cittadini. Quindi per ‘dialetto’ si intende una lingua che, in un dato paese, è parlata solo da una minoranza di persone. Naturalmente in tutto un paese, non può esistere un solo dialetto: se la lingua parlata in una nazione è una sola, allora questo dialetto è automaticamente la lingua di quella nazione. Si parla giustamente di dialetti, invece, quando in una nazione ci sono più minoranze che parlano ciascuna una lingua diversa da quella delle altre; in questo caso sono più dialetti, tanti quante sono le ‘lingue’ della minoranza. In questo caso accade anche che, dei vari dialetti della nazione, uno solo si diffonde sopra tutti gli altri, e viene a essere parlato da tutti: allora quel dialetto, anche se nel passaggio non cambia affatto, comincia ad essere chiamato la ‘lingua’ di quella nazione, in quanto non è più limitato a una minoranza ristretta ma è conosciuto da tutta la popolazione.
Questa è, in parole molto povere, la ragione per cui noi diciamo che il ‘dialetto’ di Firenze è diventato la ‘lingua’ italiana: esso si è diffuso su tutti gli altri dialetti, è diventato quello più largamente conosciuto, quindi ha cominciato ad essere usato da minoranze sempre più vaste di popolazione per essere usato infine dalla maggioranza di essa.

Il dialetto non è indegno
[...] Non è vero che i dialetti siano più brutti, più ‘scorretti’, più ‘incivili’ delle lingue, in quanto anche quelle che chiamiamo ‘lingue’ sono state e sono tuttora dei dialetti. L’unica differenza che veramente c’è tra lingue e dialetti sta nel fatto che mentre il dialetto può servire solo finché ci troviamo nella minoranza che lo usa, la lingua può servire in tutto il paese.
Quindi il dialetto è uno strumento di comunicazione che ha esattamente le stesse proprietà e le stesse capacità della lingua. Non è vero che ci sono cose che la lingua può dire e il dialetto non può dire [...].
Non è vero neppure – d’altra parte – che il dialetto sia più ‘espressivo’, più ‘colorito’ della lingua. Se la lingua è conosciuta come si deve, se chi la usa sa come funziona, anche la lingua, ogni lingua, può essere colorita ed espressiva, non meno del dialetto.